Giornalismo e sociologia, cos’hanno in comune?

All’interno della piattaforma per la formazione obbligatoria dei giornalisti c’è un interessante corso, condotto dal professor Sergio Splendore, che mette a confronto giornalismo e sociologia e lo strumento principe delle due discipline: l’intervista. Se il giornalismo è nato prima della sociologia – che appare solo tra Ottocento e Novecento – ciò che accomuna i due approcci è quello Mills chiama “sguardo sociologico”, una condizione che, seppur identificata da un sociologo, non appartiene soltanto a lui: si tratta di avere ciò che consente di afferrare biografie e storie, il loro rapporto in ciò che viene raccontato, che permette di osservare un piccolo pezzo della realtà e applicarlo poi alla complessità del reale. Questo sguardo sociologico è una qualità della mente, mette in relazione micro e macro, individuale e collettivo. Sia la sociologia che il giornalismo, dunque, hanno a che fare con persone, devono saperle individuare e interagire con loro: il giornalismo semplifica percorsi complessi raccontando spesso storie individuali, la sociologia riconduce fatti privati a questioni pubbliche.

 

Definizione sociologica di giornalismo

Secondo uno dei padri della sociologia, Emile Durkheim, i fatti sociali vanno considerati come cose e le cose non sono solo oggetti, ma anche le relazioni sociali, costumi, norme. E vanno spiegati con altri fatti sociali.  Un altro sociologo, Max Weber, inaugura un filone di sociologia che va a indagare e riflettere sulle azioni individuali cercando di capire l’agire sociale. Se volessimo dare una definizione sociologica di giornalismo potremmo dire che esso è il lavoro di un insieme di istituzioni (redazioni e fonti) che rende periodicamente pubbliche (temporalità) delle informazioni (i fatti e i commenti) su eventi contemporanei normalmente presentati come veri. Esso non si occupa di storia, ma di ciò che le sta intorno. La sociologia, invece, è lo studio della società costituita da individui e istituzioni che interagiscono; cerca di comprendere le relazioni che si creano per organizzare al meglio la vita, ciò che si chiede è come si sviluppa la società.

 

Punti in comune

Entrambe le discipline hanno in comune la vastità dell’ambito di azione – esistono i giornalismi, così come esistono le sociologie. Sono entrambe interessate ai processi e alle dinamiche della società. La sociologia è interessata anche alle interazioni quotidiane e alle grandi relazioni, andando a collegare  piccoli fatti con ciò che è di interesse pubblico. Sono accomunate dall’apporto

critico che forniscono e dal fatto che producono conoscenza attraverso al scrittura di testi e informazioni. Spesso il giornalista, così come il sociologo, si spinge a fare interpretazioni. La sociologia semplifica la complessità e cerca di dare delle linee generali.

 

Cosa le separa

Mentre il giornalista è interessato all’eccezionale, la sociologia si interessa a ciò che è quotidiano e continuo, studia il senso comune. Se il giornalista spesso raccoglie i fatti e poi costruisce delle ipotesi, la sociologia procede al contrario: prima, dopo aver studiato la bibliografia in sull’argomento, costruisce le ipotesi, poi raccoglie i dati e verifica le ipotesi.

 

La raccolta dati

Il giornalismo ha bisogno di fonti (persone, uffici stampa, report, rete), e la sociologia ha bisogno di dati, quantitativi o qualitativi: per esempio le altre ricerche fatte e la letteratura che è stata prodotta sull’argomento di indagine. Usa sia dati numerici che qualitativi ed è tenuta a raccogliere le informazioni in modo rigoroso: è questo che la fa diventare scienza. Può trattarsi di dati scritti o parlati, con l’osservazione delle relazioni sociali e dei comportamenti, o anche di racconti fatti da persone coinvolte nella ricerca. Ed è qui che arriviamo al metodo più utilizzato da giornalismo e sociologia: l’intervista.

 

L’intervista sociologica e l’intervista giornalistica

Ci sono vari tipi di intervista sociologica. C’è quella narrativa, dove il sociologo lascia spazio al racconto parlando con la persona di interesse. C’è l’intervista semi-strutturata, che viene fatta a più soggetti che ricoprono lo stesso campo di ricerca e rispondono a una griglia di domande aperte per comprendere le rappresentazioni delle persone. Oppure c’è l’intervista strutturata, che si fa con questionario di domande chiuse, come quello che si utilizza per esempio per il censimento della popolazione. In questo caso sono fondamentali gli aspetti relazionali che si attivano tra intervistato e sociologo che non deve mai essere direttivo. Il giornalista, invece, attraverso l’intervista, cerca di sapere la verità, intervista diverse persone con ruoli diversi per appurare la ricostruzione dei fatti.

Alla sociologia non interessa la verità, ciò che vuole indagare è la percezione della persona. La differenza sta nel metodo e nel tipo di domande che vengono poste. Se quelle del giornalista possono essere anche veloci e incalzanti, quelle sociologiche sono più aperte alla discussione. E ciò che è diverso è proprio il setting dell’intervista. Il giornalismo non sempre può spendere tanto tempo nel contesto che indaga, ma a volte lo fa: per esempio nei reportage di guerra dove dà la notizia ma si cerca anche di rendere l’atmosfera osservando i contesti. In sociologia il setting è importantissimo

 

Deontologia professionale

E veniamo alla deontologia. Sia sociologia che giornalismo osservano e provano a non turbare gli equilibri del gioco; entrambi hanno delle linee guida etiche riconosciute a livello internazionale. In tutte e due i campi è necessario proteggere la privacy degli intervistati; la tutela delle fonti è la pietra angolare della libertà di stampa e anche il sociologo è tenuto a eliminare le relazioni tra il dato raccolto e le persone che hanno fornito le risposte. Certo, nell’intervista faccia a faccia è più difficile, ma si cerca comunque d minimizzare l’impatto. Il ricercatore deve sempre ottenere il consenso informato; è, il suo, un lavoro più invisibile di quello del giornalista, ma egli è comunque tenuto a essere affidabile e a raccontare il metodo che usa. Sforzandosi di non avere pregiudizi e di rimanere imparziale.

 

Le mamme e le scimmie urlatrici nella testa

Sta per iniziare un nuovo anno scolastico e si moltiplicano le incombenze che in genere le mamme hanno normalmente. Oltre alle solite cose lavorative e domestiche, tocca pensare alle nuove attività da far intraprendere ai figli, che tutto sia a posto per il nuovo inizio, poi c’è il compleanno di Tizio, il pigiama party (sì, oggi va molto tra i piccoli, mannaggia!) a casa di Caio, il frigo da pulire, l’iscrizione in piscina da fare, le scarpe da ginnastica da comprare…
Tutte cose che fanno le mamme?

Noooo! I compagni – se glielo chiediamo – aiutano, magari a sparecchiare, ma si fermano a solo quello che è stato richiesto. Le mamme in genere stanno per sparecchiare poi si accorgono che mancano i biscotti nella lista della spesa, mentre stanno per scrivere notano che è caduto del pomedoro sul pavimento,  puliscono e dicono ai figli di ricordarsi di lavarsi i denti e di mettersi il pigiama, c’è la lavatrice da far partire… e poi finalmente riescono a sparecchiare.
Suona familiare?
Si chiama “charge mentale”, definito dal mio compagno “scimmie urlatrici nella testa”! 
Si tratta di un sovraccarico mentale che non corrisponde al “fare tutto”, ma “nell’avere costantemente, in un angolo della propria testa la preoccupazione e il pensiero delle mansioni domestiche ed educative, anche nel momento in cui non le si sta concretamente eseguendo”. Si tratta di una specie di vigilanza costante e pervasiva, un lavoro di gestione, di pianificazione e di anticipazione che spesso ci si trova a fare completamente da sole.
Il concetto è stato introdotto negli anni Ottanta dalla sociologa francese Monique Haicault, ed è causa e conseguenza dell’attribuzione di determinati ruoli sociali in base al genere; in pratica, all’interno della coppia, i maschi si rifiuterebbero di assumersi la loro parte di carico mentale. Solo che anche le donne hanno la loro parte di responsabilità perché tendono a pensare “se non lo faccio io non lo fa nessuno”.
Capito? Tocca mollare la presa!
N.B.: Mentre scrivevo questo post nessuna delle scimmie urlatrici è stata molestata.