Bambini mascherati ovunque, feste a tema mostruoso, adulti che preparano dolcetti da distribuire. Anche quest’anno è già tempo del 31 ottobre, la notte di Halloween, della Great Pumpkin di Charlie Brown (tradotto malamente in italiano con il Grande Cocomero, ma era una zucca) e il dilemma è in arrivo: questa festa si festeggia o liquidiamo il tutto come un’americanata? Purtroppo spesso anche nel mondo della scuola si parla di Halloween solo in termini di festa a tema mostruoso; c’è poi chi la vede come un pericoloso ritorno a forme di paganesimo o chi la vede come un rito folkloristico e volto al consumismo, una sorta di carnevale fuori stagione. Chi si ricorda ormai della festività cristiana che con Halloween si va soppiantando, cioè Ognissanti che cade il 1° novembre? Allora vale la pena ricordare che Halloween altro non è che la storpiatura americana del termine All Hallow’s, Notte di tutti gli spiriti sacri, cioè la vigilia di Ognissanti. Quindi, sì, questa festa parte da una ortodossa festa cattolica, anche se purtroppo spesso finisce in una brutta parodia del sacro. E oggi, in pratica, viene vissuta solo come una festa americana, di quell’America dove giunsero tanti emigranti irlandesi devoti ai santi che oggi, nella sua attuale versione secolarizzata scarta il senso cattolico e trattiene quello lugubre con i fantasmi e i morti che perseguitano chi è ancora sulla terra, nel tentativo di esorcizzare la morte con maschere e scherzi. Versione che a noi è arrivata attraverso i tanti film di Hollywood.
Ma Halloween non è solo business ed è importante conoscere le sue radici culturali e non concordo con chi vorrebbe boicottarla. Eraldo Baldini e Giuseppe Bellosi, nel loro libro Halloween. Nei giorni che i morti ritornano, ci dicono che più nuova delle feste non ha affatto un cuore americano. Viene dall’Italia, e dall’Europa, dei tempi più profondi. In un viaggio suggestivo e colto, approfondito nel folklore regione per regione, ci raccontano come gli elementi della Halloween americana si ritrovano negli usi e nelle credenze italiane, molto più di quello che pensiamo. I dodici giorni che vanno dal 31 ottobre fino alla festa di San Martino (termine ultimo per finire la semina) un tempo segnavano il capodanno celtico, la festa di Sanhaim, la fine della stagione calda e l’inizio di quella fredda in cui la luce lascia il posto al buio. Questi erano i giorni in cui il capodanno celtico, imitando il ciclo naturale, era incentrato sulla celebrazione della morte, quando si aprivano varchi che potessero mettere in comunicazione il mondo dell’invisibile con quello del visibile. Durante questa data, così come in altre che segnano al fine dei cicli naturali, secondo i celti si apre un portale tra il mondo dei vivi e quello dei morti mettendo in comunicazione il mondo dell’invisibile con quello del visibile;era abitudine lasciare del cibo e del latte fuori dalla porta di casa come offerta alle anime affamate del defunti che tornavano su questo mondo a trovare i propri cari. Alcuni morti, invece, andavano tenuti a distanza con riti difensivi, come gli scherzi, a volte anche pesanti, che si mettevano in atto anche in Italia nelle campagne.
Baldini e Bellosi documentano come anni addietro in Italia, durante questa notte, si stava in casa a raccontarsi storie di paura, esattamente come oggi si guardano i film o ci si mettono travestimenti mostruosi. In Emilia-Romagna i poveri avevano l’abitudine di recarsi di casa in casa per chiedere cibo, così da calmare le anime dei defunti, abitudine diffusa in altre regioni: i bambini, vestiti da fantasmi rappresentano le anime dei morti che chiedono doni (e preghiere) e, in cambio, promettono di non spaventare o fare scherzi ai vivi. “La festa di Halloween è stata continuamente reinventata – scrivono gli autori – in relazione ai cambiamenti socio-culturali avvenuti tra Otto e Novecento e, pur diventando una delle più popolari, essa non è mai stata inserita tra quelle ufficiali e ha mantenuto alcuni elementi trasgressivi e carnevaleschi delle feste premoderne, caricandoli di nuovi significati in nuovi contesti sociali e culturali. Elementi che hanno contribuito a far sì che Halloween, probabilmente la festa più antica che c’è in Europa, abbia conservato sempre la propria vitalità.”
Ai bambini questa festa piace perché sono attratti dall’elemento misterioso. Festeggiamo allora, ma spieghiamone bene il significato di queste usanze. Allora, dolcetto o scherzetto?
All’interno della piattaforma per la formazione obbligatoria dei giornalisti c’è un interessante corso, condotto dal professor Sergio Splendore, che mette a confronto giornalismo e sociologia e lo strumento principe delle due discipline: l’intervista. Se il giornalismo è nato prima della sociologia – che appare solo tra Ottocento e Novecento – ciò che accomuna i due approcci è quello Mills chiama “sguardo sociologico”, una condizione che, seppur identificata da un sociologo, non appartiene soltanto a lui: si tratta di avere ciò che consente di afferrare biografie e storie, il loro rapporto in ciò che viene raccontato, che permette di osservare un piccolo pezzo della realtà e applicarlo poi alla complessità del reale. Questo sguardo sociologico è una qualità della mente, mette in relazione micro e macro, individuale e collettivo. Sia la sociologia che il giornalismo, dunque, hanno a che fare con persone, devono saperle individuare e interagire con loro: il giornalismo semplifica percorsi complessi raccontando spesso storie individuali, la sociologia riconduce fatti privati a questioni pubbliche.
Definizione sociologica di giornalismo
Secondo uno dei padri della sociologia, Emile Durkheim, i fatti sociali vanno considerati come cose e le cose non sono solo oggetti, ma anche le relazioni sociali, costumi, norme. E vanno spiegati con altri fatti sociali. Un altro sociologo, Max Weber, inaugura un filone di sociologia che va a indagare e riflettere sulle azioni individuali cercando di capire l’agire sociale. Se volessimo dare una definizione sociologica di giornalismo potremmo dire che esso è il lavoro di un insieme di istituzioni (redazioni e fonti) che rende periodicamente pubbliche (temporalità) delle informazioni (i fatti e i commenti) su eventi contemporanei normalmente presentati come veri. Esso non si occupa di storia, ma di ciò che le sta intorno. La sociologia, invece, è lo studio della società costituita da individui e istituzioni che interagiscono; cerca di comprendere le relazioni che si creano per organizzare al meglio la vita, ciò che si chiede è come si sviluppa la società.
Punti in comune
Entrambe le discipline hanno in comune la vastità dell’ambito di azione – esistono i giornalismi, così come esistono le sociologie. Sono entrambe interessate ai processi e alle dinamiche della società. La sociologia è interessata anche alle interazioni quotidiane e alle grandi relazioni, andando a collegare piccoli fatti con ciò che è di interesse pubblico. Sono accomunate dall’apporto
critico che forniscono e dal fatto che producono conoscenza attraverso al scrittura di testi e informazioni. Spesso il giornalista, così come il sociologo, si spinge a fare interpretazioni. La sociologia semplifica la complessità e cerca di dare delle linee generali.
Cosa le separa
Mentre il giornalista è interessato all’eccezionale, la sociologia si interessa a ciò che è quotidiano e continuo, studia il senso comune. Se il giornalista spesso raccoglie i fatti e poi costruisce delle ipotesi, la sociologia procede al contrario: prima, dopo aver studiato la bibliografia in sull’argomento, costruisce le ipotesi, poi raccoglie i dati e verifica le ipotesi.
La raccolta dati
Il giornalismo ha bisogno di fonti (persone, uffici stampa, report, rete), e la sociologia ha bisogno di dati, quantitativi o qualitativi: per esempio le altre ricerche fatte e la letteratura che è stata prodotta sull’argomento di indagine. Usa sia dati numerici che qualitativi ed è tenuta a raccogliere le informazioni in modo rigoroso: è questo che la fa diventare scienza. Può trattarsi di dati scritti o parlati, con l’osservazione delle relazioni sociali e dei comportamenti, o anche di racconti fatti da persone coinvolte nella ricerca. Ed è qui che arriviamo al metodo più utilizzato da giornalismo e sociologia: l’intervista.
L’intervista sociologica e l’intervista giornalistica
Ci sono vari tipi di intervista sociologica. C’è quella narrativa, dove il sociologo lascia spazio al racconto parlando con la persona di interesse. C’è l’intervista semi-strutturata, che viene fatta a più soggetti che ricoprono lo stesso campo di ricerca e rispondono a una griglia di domande aperte per comprendere le rappresentazioni delle persone. Oppure c’è l’intervista strutturata, che si fa con questionario di domande chiuse, come quello che si utilizza per esempio per il censimento della popolazione. In questo caso sono fondamentali gli aspetti relazionali che si attivano tra intervistato e sociologo che non deve mai essere direttivo. Il giornalista, invece, attraverso l’intervista, cerca di sapere la verità, intervista diverse persone con ruoli diversi per appurare la ricostruzione dei fatti.
Alla sociologia non interessa la verità, ciò che vuole indagare è la percezione della persona. La differenza sta nel metodo e nel tipo di domande che vengono poste. Se quelle del giornalista possono essere anche veloci e incalzanti, quelle sociologiche sono più aperte alla discussione. E ciò che è diverso è proprio il setting dell’intervista. Il giornalismo non sempre può spendere tanto tempo nel contesto che indaga, ma a volte lo fa: per esempio nei reportage di guerra dove dà la notizia ma si cerca anche di rendere l’atmosfera osservando i contesti. In sociologia il setting è importantissimo
Deontologia professionale
E veniamo alla deontologia. Sia sociologia che giornalismo osservano e provano a non turbare gli equilibri del gioco; entrambi hanno delle linee guida etiche riconosciute a livello internazionale. In tutte e due i campi è necessario proteggere la privacy degli intervistati; la tutela delle fonti è la pietra angolare della libertà di stampa e anche il sociologo è tenuto a eliminare le relazioni tra il dato raccolto e le persone che hanno fornito le risposte. Certo, nell’intervista faccia a faccia è più difficile, ma si cerca comunque d minimizzare l’impatto. Il ricercatore deve sempre ottenere il consenso informato; è, il suo, un lavoro più invisibile di quello del giornalista, ma egli è comunque tenuto a essere affidabile e a raccontare il metodo che usa. Sforzandosi di non avere pregiudizi e di rimanere imparziale.
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